Sono sotto gli occhi di tutti le vicende drammatiche della rivolta dei monaci buddisti del Burma, nonostante i tentativi del regime di blindare il paese contro l’informazione. Verrebbe da pensare che sia un posto terribile dove vivere. Eppure oggi leggo sul sito di Peacereporter una notizia che, in qualche modo, mi fa provare al tempo stesso entusiasmo ed…invidia per quel paese. Poche parole, ma magiche: “i soldati si rifiutano di sparare”. Che bellezza! Che bel posto deve essere quello in cui “i soldati si rifiutano di sparare”. Fosse sempre così dappertutto, ogni volta che la forza militare si abbatte contro persone innocenti. Parole come ‘diserzione’, ‘ammutinamento’ e via dicendo perdono di significato di fronte al rifiuto di quei militari che riescono a pensare un attimo prima di ‘obbedire’ ciecamente agli ordini. "I soldati della Divisione 33 di stanza a Mandalay hanno disobbedito ieri agli ordini di sparare sui monaci, e hanno desposto a terra le armi al passaggio dei religiosi", leggo ancora sul sito. E immagino questi militari (a cui pare si siano uniti anche i cadetti dell’accademia militare birmana) posare i fucili sull’asfalto di fronte all’avanzata calma, ordinata e coraggiosa dei manifestanti. Un gesto di vittoria piuttosto che di resa. Una liberazione. Soltanto ieri, sempre su Peacereporter, leggevo la testimonianza di un ex-militare birmano in esilio, un dissidente, che raccontava come le milizie odierne fossero molto più spietate di quelle che, in passato, avevano contrastato violentemente altre rivolte e di cui anche lui aveva fatto parte. Sembra che si sbagliasse per fortuna. Se non del tutto almeno in parte.
Quando l’esercito depone le armi il potere punitivo si spegne. La dittatura rimane indifesa. Spero che questa vicenda continui ad evolversi in questa direzione. Se così fosse, ci sarebbe solo una cosa che potrebbe fermare l’avanzata pacifica dei monaci e dei loro sostenitori: noi! Ovvero l’intervento dell’occidente. O della Russia, o della Cina.
Tengo le dita incrociate
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