A più riprese, il simpatico presidente americano Gorge W. Bush, ha sottolineato come l’invasione dell’Iraq da parte della NATO abbia portato ad una significativa riduzione del terrorismo. Questo punto di vista è stato spesso ripreso anche in altri paesi da svariate testate giornalistiche, a giustificare la nostra presenza militare in quel paese. Partendo da un articolo su Peacereporter, mi sono imbattuto nel lavoro di due ricercatori americani, Peter Bergen e Paul Cruickshank del Center on Law and Security della New York University School of Law. Si intitola ‘The Iraq effect’ ed è una analisi sociologica e statistica delle variazioni subite da diversi parametri legati alla jihad (numero di attentati, vittime, supporto agli USA ecc.) tra il 12 settembre 2001, ovvero il giorno dopo l’attacco alle torri gemelle, ed il 20 marzo 2003 (giorno dell’invasione NATO) e tra il 21 marzo 2003 ed i giorni nostri, al fine di isolare e quantificare l’effetto della guerra in Iraq sull’attività terroristica jihadiana. I risultati sono un tantino in antitesi con le affermazioni di Bush…
Dal lavoro di questi due ricercatori risulta che l’attività terroristica della jihad islamica ha segnato, dopo l’invasione dell’Iraq, un aumento del 607% in termini di media per anno di attacchi ed un aumento del 237% in termini di morti provocate, se si includono nel conteggio anche lo stesso Iraq e l’Afghanistan. Escludendo questi due paesi, tutt’ora sotto occupazione militare e quindi più suscettibili di attentati, si assiste comunque ad un incremento del 35% nel primo parametro (media annua di attentati) e del 12% nel numero di morti causate. Sottolineo come questi conteggi, basati sui dati ottenuti dal più grande database mondiale sul terrorismo (http://www.terrorismknowledgebase.org/), non includano l’attività di gruppi terroristici legati o riportabili all’Islam in generale, quali potrebbero essere gruppi ceceni o palestinesi nell’ambito del conflitto con Israele, ma sono relativi all’attività di gruppi jihadisti che rivendicano i propri attentati nel nome della guerra santa contro i ‘crociati’ occidentali.
In pratica si sono riscontrati aumenti dell’attività terroristica principalmente in Europa e nel mondo arabo. Leggeri aumenti anche in Pakistan, India e Russia, mentre l’Asia è l’unico posto in cui si è registrata una diminuzione degli attacchi. Fenomeno questo che, a detta dei due ricercatori, non è avvenuto a causa della guerra in Iraq, ma ‘nonostante’ la guerra in Iraq e sembra in parte essere dovuto sia agli aiuti umanitari che gli USA hanno mobilitato a seguito dello tsunami che colpì il sud-est asiatico, sia al fatto che precedenti attentati, specialmente in Indonesia, avevano causato numerose vittime tra i mussulmani stessi, generando un moto di antipatia verso il fondamentalismo originato dentro la stessa comunità islamica. Le variazioni nei livelli di attività terroristica nei diversi paesi sembrano essere legate a fattori come la presenza in Iraq di truppe del paese bersaglio, la vicinanza geografica all’Iraq ed ideologica ai gruppi jihadisti ed il tasso di interscambio culturale tra questi ed i mussulmani del paese bersaglio. Per queste ragioni il problema sembra essere particolarmente serio in Arabia Saudita, grande alleato degli Stati Uniti che però generà una percentuale altissima di terroristi che agiscono oltreconfine, nello stesso Iraq. Questo è, a detta dei due ricercatori, un secondo momento di evoluzione del terrorismo jihadista. Ovvero la capacità di reclutare attivisti in paesi anche distanti. La guerra in Iraq ha portato ad una forte galvanizzazione della jihad in tutto il mondo (tranne che in Asia a quanto pare) e, come conseguenza, da tutto il mondo arrivano nei campi di addestramento del medio oriente persone desiderose di unirsi alla jihad, essere addestrate e poi rimandate indietro nei paesi di partenza per farsi saltare in aria. ‘The globalization of martyrdom’, la globalizzazione del martirio, significativo contrappasso a quella del mercato che ha causato tutto questo stato di cose.
Il trattato si trova online sul sito Mother Jones, e merita di essere letto, seppur in inglese, per avere un idea di questi fenomeni e delle gran balle che l’amministrazione americana ci propina quotidianamente. Almeno al 99%. Si perché un fondo di verità in quello che dice Bush c’è. C’è stata davvero una diminuzione degli atti di terrorismo dopo l’invasione dell’Iraq, ma non in tutto l’occidente…solo negli Stati Uniti, o solo per gli statunitensi, dal momento che dall’inizio di quella guerra solo 18 ne sono morti per mano dei terroristi. La ‘preemptive war’ ha funzionato, non c’è che dire!
Dal lavoro di questi due ricercatori risulta che l’attività terroristica della jihad islamica ha segnato, dopo l’invasione dell’Iraq, un aumento del 607% in termini di media per anno di attacchi ed un aumento del 237% in termini di morti provocate, se si includono nel conteggio anche lo stesso Iraq e l’Afghanistan. Escludendo questi due paesi, tutt’ora sotto occupazione militare e quindi più suscettibili di attentati, si assiste comunque ad un incremento del 35% nel primo parametro (media annua di attentati) e del 12% nel numero di morti causate. Sottolineo come questi conteggi, basati sui dati ottenuti dal più grande database mondiale sul terrorismo (http://www.terrorismknowledgebase.org/), non includano l’attività di gruppi terroristici legati o riportabili all’Islam in generale, quali potrebbero essere gruppi ceceni o palestinesi nell’ambito del conflitto con Israele, ma sono relativi all’attività di gruppi jihadisti che rivendicano i propri attentati nel nome della guerra santa contro i ‘crociati’ occidentali.
In pratica si sono riscontrati aumenti dell’attività terroristica principalmente in Europa e nel mondo arabo. Leggeri aumenti anche in Pakistan, India e Russia, mentre l’Asia è l’unico posto in cui si è registrata una diminuzione degli attacchi. Fenomeno questo che, a detta dei due ricercatori, non è avvenuto a causa della guerra in Iraq, ma ‘nonostante’ la guerra in Iraq e sembra in parte essere dovuto sia agli aiuti umanitari che gli USA hanno mobilitato a seguito dello tsunami che colpì il sud-est asiatico, sia al fatto che precedenti attentati, specialmente in Indonesia, avevano causato numerose vittime tra i mussulmani stessi, generando un moto di antipatia verso il fondamentalismo originato dentro la stessa comunità islamica. Le variazioni nei livelli di attività terroristica nei diversi paesi sembrano essere legate a fattori come la presenza in Iraq di truppe del paese bersaglio, la vicinanza geografica all’Iraq ed ideologica ai gruppi jihadisti ed il tasso di interscambio culturale tra questi ed i mussulmani del paese bersaglio. Per queste ragioni il problema sembra essere particolarmente serio in Arabia Saudita, grande alleato degli Stati Uniti che però generà una percentuale altissima di terroristi che agiscono oltreconfine, nello stesso Iraq. Questo è, a detta dei due ricercatori, un secondo momento di evoluzione del terrorismo jihadista. Ovvero la capacità di reclutare attivisti in paesi anche distanti. La guerra in Iraq ha portato ad una forte galvanizzazione della jihad in tutto il mondo (tranne che in Asia a quanto pare) e, come conseguenza, da tutto il mondo arrivano nei campi di addestramento del medio oriente persone desiderose di unirsi alla jihad, essere addestrate e poi rimandate indietro nei paesi di partenza per farsi saltare in aria. ‘The globalization of martyrdom’, la globalizzazione del martirio, significativo contrappasso a quella del mercato che ha causato tutto questo stato di cose.
Il trattato si trova online sul sito Mother Jones, e merita di essere letto, seppur in inglese, per avere un idea di questi fenomeni e delle gran balle che l’amministrazione americana ci propina quotidianamente. Almeno al 99%. Si perché un fondo di verità in quello che dice Bush c’è. C’è stata davvero una diminuzione degli atti di terrorismo dopo l’invasione dell’Iraq, ma non in tutto l’occidente…solo negli Stati Uniti, o solo per gli statunitensi, dal momento che dall’inizio di quella guerra solo 18 ne sono morti per mano dei terroristi. La ‘preemptive war’ ha funzionato, non c’è che dire!
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