Mi ricordo quel 20 luglio del 2001. Cariche e pestaggi erano annunciati ed all’idea di una manifestazione pacifica non ci credeva nessuno, tanto più che i black block già si erano mostrati in altre occasioni. Spuntati fuori dal nulla, già avevano dato prova delle loro abilità di agitatori. Ma un morto non se lo aspettava nessuno. Nessuno avrebbe immaginato il concatenarsi di eventi che avrebbe portato a confronto un giovane carabiniere spaventato ed un altrettanto giovane punkabestia arrabbiato che quasi per caso aveva deciso di recarsi a Genova. Tutti, chi più chi meno, hanno concordato sulla casualità della cosa, a partire dai genitori di Giuliani, che già il giorno dopo parlavano di ‘incidente’. La camionetta circondata, il ragazzo (così lo ricorderà la lapide posta in Piazza Alimonda) che raccoglie un estintore e fa per tirarlo, il carabiniere che si spaventa e, nella concitazione, lascia partire il colpo. Due vite rovinate. E lo spettacolo disgustoso di poliziotti e carabinieri che cercano di nascondere il corpo, lanciando accuse a manifestanti terrorizzati, per coprire, per sviare, arrivando persino ad infierire sulla testa del cadavere con una pietra, per simulare un decesso diverso da quello per arma da fuoco. Certuni nelle forze dell’ordine ce l’hanno nel DNA questo atteggiamento. Ma rimane il fatto che di incidente si tratta ed il dispiacere che segue lo shock iniziale non riesce a oscurare la rabbia per quanto succede nei giorni successivi del G8, in particolare per quello sciagurato intervento alla scuola Pertini/Diaz o per i pestaggi della caserma Bolzaneto. L’indignazione per questi due avvenimenti arriva fino in Commissione Europea, che emette un severo monito all’Italia, e ad altri paesi, esprimendo preoccupazione per l’abuso di violenza da parte di rappresentanti delle forze dell’ordine. Anche Amnesty International si pronuncia: “una violazione dei diritti umani di proporzioni mai viste in Europa nella storia recente”.
Un incidente dunque, o almeno così credevamo. Ne eravamo tutti tanto convinti che non ci ha sorpreso più di tanto la rapidità con cui la magistratura ha archiviato il caso, assolvendo Placanica per aver agito in nome della legittima difesa. Poi però lo stesso Placanica rilascia un’intervista al giornale ‘Calabria Ora’ (lo stesso giornale perquisito dalle forze dell’ordine il 7 maggio scorso, dopo la pubblicazione della relazione relativa alla Asl di Locri, che portò alla chiusura della stessa per ‘infiltrazioni mafiose’). Rilascia un’intervista che non solo rivela alcuni raccapriccianti retroscena della vicenda, come le congratulazioni ricevute dal giovane carabiniere, da parte dei suoi commilitoni, per l’uccisione (‘benvenuto tra i killer’), ma riaccende la curiosità, riporta in evidenza tutte le contraddizioni di questa vicenda, del processo. Tutti gli interrogativi riaffiorano. E viene fuori che, ad esempio, mentre Placanica afferma che erano solo in due nel retro di quel ‘defender’, il suo collega sostiene ripetutamente durante il processo che invece erano più di due. Viene fuori che il foro lasciato dal proiettile non è compatibile con quelli delle 9 mm normalmente in dotazione all’Arma, essendo di 8 mm. Viene fuori che a sparare potrebbe essere stato qualcun altro insomma, forse un alto ufficiale.
In un paese normale, tutti questi interrogativi aprirebbero un dibattito pubblico, anche parlamentare. In un paese normale una commissione d’inchiesta si farebbe carico di ricercare e di rendere pubblica la verità. In un paese normale scoppierebbe un casino infernale. Ma il nostro non è un paese normale. Il dibattito pubblico è limitato a pochi giornali, qualche sito web e qualche blog. La commissione d’inchiesta, di cui l’Unione s’era fatta garante in campagna elettorale, è ferma ed osteggiata da più parti anche interne alla maggioranza (Italia dei Valori e Rosa nel Pugno). Insomma, il casino infernale, ancora una volta, non scoppia. Come dice La Russa, ‘abbiamo problemi più seri da risolvere’.
Già, cose più importanti. Tipo l’inchiesta sui brogli elettorali!
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